Tesina sulla Luna
tesina di maturità sulla luna
Tesina sulla Luna
L’argomento della mia tesina è la luna. “Astro che cresce,
decresce e scompare”, essa con il suo ciclo periodico di trasformazione diviene
simbolo della dinamica vita-morte, morte-vita.
Il mio percorso riguarda sei
ambiti disciplinari:
- Il tema della contemplazione lunare all’interno di
un più ampio rapporto uomo-natura nella poesia romantica di Giacomo
Leopardi; Successiva dissoluzione del rapporto dialettico poeta-natura in
una concezione di quest’ultima come suggestivo mistero ricco di echi,
rimandi e simboli nella poetica decadente e in particolare quella di
Giovanni Pascoli.
- Nell’ambito dei poeti romantici inglesi Percy
Shelley esprime con titanica intensità la percezione della natura in cui i
singoli elementi divengono fortemente evocativi per la fantasia
immaginativa e creativa del poeta. La natura rappresenta in questo
contesto il rifugio favorito nonché l’interlocutore privilegiato dei sogni
malinconici del poeta, dei suoi desideri e delle sue speranze.
- Nella filosofia di Nietzsche e in particolare nello
Zarathustra si ha una negazione delle coppie dialettiche che i romantici
nella loro tensione verso la natura cercavano di conciliare; quasi che per
il filosofo il male stesso della vita risiedesse proprio nella attitudine
alla trascendenza dell’uomo. Tale atteggiamento viene esplicitato con
netta evidenza nel noto passo “La visione e l’enigma”.
- Le atmosfere notturne e lunari sono fonte di
ispirazione profonda anche per i compositori musicali ottocenteschi. In
particolare la componente notturna è stata eminentemente valorizzata da
Fryderyk Chopin ma precedentemente anche da Ludwing van Beethoven.
- La Luna svelata. 20 luglio 1969: cronaca dello
sbarco lunare.
“Questo è un piccolo passo per un uomo,
ma un grande balzo per l’umanità”.
Con queste parole Neil Armstrong commentò
i primi passi dopo la discesa sulla superficie
lunare.
- Per quanto riguarda più direttamente l’aspetto
scientifico la luna è l’unico satellite della Terra di cui costituisce
anche l’oggetto celeste più vicino: è un corpo opaco che risplende per
luce riflessa del Sole. La Luna è altresì l’oggetto celeste che meglio si
presta ad essere osservato con strumenti anche non molto potenti.
LEOPARDI E LA LUNA
Il tema della contemplazione
lunare insieme a quello della “rimembranza” del passato sono i motivi poetici
presenti nell’idillio Alla luna composto da Leopardi nel 1819 (o nel 1821).
Nella lirica, costituita da
sedici endecasillabi sciolti, il poeta si rivolge all’astro notturno con
epiteti quali “graziosa”, “diletta” quasi riconoscesse nella luna
un’interlocutrice amica a cui esprimere il proprio affanno, la propria pena.
Anche il “noverar l’etate” del suo dolore risulta gradito al poeta poiché anche
i ricordi più angosciosi riaffiorano come sublimati dalla “ricordanza”.
La poesia è connotata da un
preciso “hic et nunc”. L’autore specifica precise determinazioni
spazio-temporali in un contesto in cui la natura è chiamata a testimone dei
sentimenti del poeta che le si rivolge in una forte tensione dialettica
romantica.
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra
questo colle
io venia pien d’angoscia a
rimirarti:
e tu pendevi allor su quella
selva
5
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle
mie luci
il tuo volto apparia, che
travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia
stile,
10 o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza e il noverar
l’etate
del mio dolore. Oh come grato
occore
nel tempo giovanil, quando ancor
lungo
la speme e breve ha la memoria il
corso,
15 il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno
duri!
Nel Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia la luna come la Natura nella concezione del Leopardi maturo
approdato ormai al pessimismo cosmico diviene lontana, irraggiungibile ed
indifferente verso i destini e le sofferenze umane.
Schema metrico: canzone libera di
endecasillabi e settenari.
Che fai tu, luna, in ciel?
dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi
ti posi.
5 Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni
calli?
Ancor non prendi a schivo,
ancor sei vaga
di mirar queste valli?
(…)
Composto tra l’ottobre del 1829 e
l’aprile del 1830, pubblicato nell’edizione del 1831, il Canto notturno è uno
dei Grandi idilli. Diversamente dagli altri il paesaggio che fa da sfondo non è
Recanati ma un’ ambientazione lontana e misteriosa.
Nella composizione di questa
lirica Leopardi fu influenzato da un articolo comparso sul “Journal des
Savants” di Parigi nel 1826. In esso si affermava che molti pastori kirghisi
delle steppe dell’Asia centrale “passano la notte a guardare la luna e ad
improvvisare parole assai tristi su arie che non lo sono da meno”.
Riprendendo le immagini del
pastore della steppa desertica e della luna, il poeta esprime il tragico
destino che caratterizza non solo l’esistenza umana, ma quella di ogni vivente,
accomunando uomini, astri ed animali. Nessuno insomma sfugge ad un’infelicità
radicale, assoluta, necessaria e definitiva. L’io lirico si esprime nelle
semplici parole di un pastore, emblema dell’uomo di tutti i tempi con cui
Leopardi si identifica cedendogli la parola. I dubbi esistenziali del pastore,
un “primitivo” che vive un’esistenza solitaria senza particolari desideri o
aspirazioni, restano però senza risposta: da sempre e per sempre la vita è
mistero.
Di fronte al pastore la luna
domina muta e solitaria l’immensità della notte, scortando con la sua luce
argentea il cammino nel deserto, di un individuo a cui rimane la sola certezza
che “è funesto a chi nasce il dì natale”. In questa desolazione l’uomo soffre
irrimediabilmente più di tutti gli altri esseri, proprio per la sua attitudine
a porsi domande e, dotato di ragione, a non restare nell’inconsapevolezza.
Lo stile è costruito da un
lessico vago, indeterminato come è quello caro al Leopardi. La struttura
sintattica è scorrevole e segue l’andamento del discorso. Molto caratteristica
del componimento è la figura dell’apostrofe che ha come destinataria la luna.
Anafore, iterazioni, interrogative retoriche ed espressioni esclamative
connotano il monologo svolto in strofe che mantengono, ognuna, una propria
tematica e intonazione. Particolarmente densi di significato sono poi gli aggettivi
che si riferiscono alla luna quali “vaga”, “solinga”, “vergine”, “intatta”,
“eterna”.
Le sei strofe si chiudono tutte
con la rima in “ale” della chiosa drammatica della quarta strofa “a me la vita
è male”. Le ripetute invocazioni alla luna infine, conferiscono al testo
musicalità e un ritmo da litania religiosa.
LA
VISIONE NOTTURNA PASCOLIANA
In una delle liriche più famose
delle Myricae, L’assiuolo, il poeta propone una visione notturna: un cielo
chiaro, un temporale lontano, rumori diversi, di mare e campagna. Non succede
nulla: eppure, anche grazie al verso ossessivo ed enigmatico dell’assiuolo –
una specie di piccolo gufo notturno – le immagini descritte sono portatrici di
un’inquietudine profonda.
Schema metrico: strofe di sette
novenari chiusi da un ternario tronco con schema (ababcdcd).
Dov’era la luna? chè il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il
melo
4 parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
8 chiù…
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di
latte
sentivo il cullare del mare,
12 sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
16 chiù…
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
20 finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
24 chiù…
Questa lirica risulta
estremamente suggestiva per l’alternanza di determinatezza ed indeterminatezza.
La domanda iniziale introduce a una visione lontana e indefinita. Essa rivela
l’incertezza dell’esistenza della luna agli occhi del poeta. Manca un “hic et
nunc”; Pascoli non ci dice dove, non ci dice quando, diversamente dagli incipit
degli idilli leopardiani ricchi di determinazioni spazio-temporali.
Compaiono oggetti precisi come il
mandorlo, il melo seguiti da una percezione lontana ed indefinita (laggiù);
poi, ancora, fa capolino il fru fru seguito da un singulto lontano. Entrano
allora in scena le cavallette, sono citati con precisione i sistri d’argento e
interviene ancora un non ben definito pianto di morte. Questa dialettica
vicino-lontano rende ambigua e complessa la natura dello sguardo sulle cose:
sono prossime o distanti da chi osserva la scena?
Da queste osservazioni risulta
chiaro come quello descritto da Pascoli sia solo apparentemente un paesaggio
realistico. E’ vero: è una notte di luna piena, in lontananza si annuncia un
temporale, ci sono le stelle , il cielo, il vento. Ma si tratta, in realtà, di
un paesaggio completamente filtrato e distorto dalla sensibilità del poeta. In
questa direzione si collocano i procedimenti di personificazione di elementi
naturali ma soprattutto il richiamo all’io lirico che si esplicita a partire
dal verso 11 (Sentivo), ai moti inquieti del cuore (v. 13) e persino a quei
sistri d’argento a cui è assimilato il verso delle cavallette (vv. 19-20). Una
nota, questa, di raffinata cultura (il suono dei sistri nella simbologia egizia
era legato ai riti in onore di Iside, connessi al mito della resurrezione dopo
la morte) che solo il poeta è in grado di utilizzare e con cui filtra il dato
naturale. In virtù di questo procedimento analogico il suono emesso dalle
cavallette si carica di un significato simbolico-evocativo profondo, fitto di
suggestioni legate al rapporto tra la vita e la morte.
La domanda tra parentesi ai versi
21-22 porta in primo piano un secondo livello, distinto da quello della
rappresentazione naturale: il livello mentale della coscienza dell’io, che si
interroga sull’irreversibilità del destino di morte che accomuna ogni cosa e
sul nulla che inghiotte il tempo senza possibilità di risarcimento.
Onomatopee, assonanze,
allitterazioni, sinestesie sono strumenti immediati ed estremi per dialogare
con la natura circostante e dare voce al mistero della vita e della morte che
pervade la natura stessa.
Romantic poetry: Percy Shelley
No poetry had ever contained so many
descriptions of nature has we find in the works of the Romantics. Looking
attentively at nature didn’t mean only a realistic descripton of it. As their
fellow painters, the Romantic poets saw a natural scene as much more than
simply physical; they endowed it with life, passion and feeling. They talked
about nature in terms once used for God, or a lover, or a very dear friend.
Romantic poems often begin with the accurate description of a landscape, which
then often leads to thoughts about man and his role in the universe. A more
exalted vision of nature is present in Shelley, where the landscape is seen as
a alive and capable of stirring mankind to the greatest actions.
THE MOON
Published after Shelley’s death in Posthumous
Poems (1824) and later in The Poetical Works (1870) the poem was probably
written in the autumn of 1820. In the fragment we can find the same questions
as Canto notturno d’un pastore errante by Giacomo Leopardi and we may also
assocate it to that page from A portrait of the artist as a young man
(1914-1915) by James Joyce, where Stephen Dedalus repeats himself some lines of
the poem.
And, like a dying
lady lean and pale,
Who totters forth,
wrapp’d in a gauzy veil,
Out of her chamber, led
by the insane
And feeble wanderings of
her fading brain,
The moon arose up in
the murky east
A white and
shapeless mass.
Art thou pale for
weariness
Of climbing heaven and
gazing on the hearth,
Wandering
companionless
Among the stars that have
a different birth
And ever changing,
like a joyless eye
That finds no object
worth its constancy?
This poem is the first step towards achieving
that representation. It’s a brilliant little gem of a poem, a glorious example
of just how stunning Shelley could be when he didn’t overdo it. The double
image of the moon roaming disconsolate throught the night sky and Youth
searching restlessly for spiritual beauty is both crystal clear and oddly
compelling. To read this poem aloud is to experience the sadness and the
despair of the speaker, no mean feat for a poem that is all of six lines long.
This is a quintessentially romantic poem: it combines a sense of haunting
lyricism with one of the most spectacularly visual closing lines in all of
poetry: “Ever changing like a joyless eye / That finds no object worth its
constancy”. (The failure of the last line to rhyme only heightens the overall
impact of the stanza in my view – it sharpens the ending, makes it, somehow,
more fragile).
The identificatin between man and the cosmos
has a dominant importance in Shelley’s poetry: the romantic poet was deeply
influenced by mysticism and brought to see in nature a manifestation of the
Divine. For Shelley the poet and his work have a sacral function as they aim at
revealing the deep truth hidden behind the appearances of the sensitive
reality. This truth is revealed through indefinite and wounderful sensations,
the same has the once charmingly conveyed in this fragment, where the powerful
and evocative voices of Nature and the dreamy lyric poet are in one.
Traduzione
di Silvio Raffo (inedita)
LA LUNA
I)
Come pallida dama,
china ed agonizzante
in un drappo
di velo la sua stanza
lascia, in
preda al delirio straniante
e ai deboli
fantasmi della mente
ottenebrata,
dall’oscuro oriente
vaga e candida forma,
ecco, la luna balza.
II)
Sei pallida perché ti
ha ormai stancata
contemplare la terra,
scalare il firmamento
vagando sempre sola,
abbandonata
fra le stelle
lucenti a gran distanza,
sempre mutando, come un
occhio spento
che nulla trova degno
della lunga costanza?
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