Tesina sulla Luna

tesina sulla luna

tesina di maturità sulla luna


Tesina sulla Luna L’argomento della mia tesina è la luna. “Astro che cresce, decresce e scompare”, essa con il suo ciclo periodico di trasformazione diviene simbolo della dinamica vita-morte, morte-vita.

Il mio percorso riguarda sei ambiti disciplinari:

  1. Il tema della contemplazione lunare all’interno di un più ampio rapporto uomo-natura nella poesia romantica di Giacomo Leopardi; Successiva dissoluzione del rapporto dialettico poeta-natura in una concezione di quest’ultima come suggestivo mistero ricco di echi, rimandi e simboli nella poetica decadente e in particolare quella di Giovanni Pascoli.

  1. Nell’ambito dei poeti romantici inglesi Percy Shelley esprime con titanica intensità la percezione della natura in cui i singoli elementi divengono fortemente evocativi per la fantasia immaginativa e creativa del poeta. La natura rappresenta in questo contesto il rifugio favorito nonché l’interlocutore privilegiato dei sogni malinconici del poeta, dei suoi desideri e delle sue speranze.

  1. Nella filosofia di Nietzsche e in particolare nello Zarathustra si ha una negazione delle coppie dialettiche che i romantici nella loro tensione verso la natura cercavano di conciliare; quasi che per il filosofo il male stesso della vita risiedesse proprio nella attitudine alla trascendenza dell’uomo. Tale atteggiamento viene esplicitato con netta evidenza nel noto passo “La visione e l’enigma”.

  1. Le atmosfere notturne e lunari sono fonte di ispirazione profonda anche per i compositori musicali ottocenteschi. In particolare la componente notturna è stata eminentemente valorizzata da Fryderyk Chopin ma precedentemente anche da Ludwing van Beethoven.

  1. La Luna svelata. 20 luglio 1969: cronaca dello sbarco lunare.
      “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità”.
      Con queste parole Neil Armstrong commentò i primi passi dopo la discesa sulla superficie       
      lunare.

  1. Per quanto riguarda più direttamente l’aspetto scientifico la luna è l’unico satellite della Terra di cui costituisce anche l’oggetto celeste più vicino: è un corpo opaco che risplende per luce riflessa del Sole. La Luna è altresì l’oggetto celeste che meglio si presta ad essere osservato con strumenti anche non molto potenti.  
            


                                                                                                                                                                               












                                                      LEOPARDI E LA LUNA


Il tema della contemplazione lunare insieme a quello della “rimembranza” del passato sono i motivi poetici presenti nell’idillio Alla luna composto da Leopardi nel 1819 (o nel 1821).
Nella lirica, costituita da sedici endecasillabi sciolti, il poeta si rivolge all’astro notturno con epiteti quali “graziosa”, “diletta” quasi riconoscesse nella luna un’interlocutrice amica a cui esprimere il proprio affanno, la propria pena. Anche il “noverar l’etate” del suo dolore risulta gradito al poeta poiché anche i ricordi più angosciosi riaffiorano come sublimati dalla “ricordanza”.
La poesia è connotata da un preciso “hic et nunc”. L’autore specifica precise determinazioni spazio-temporali in un contesto in cui la natura è chiamata a testimone dei sentimenti del poeta che le si rivolge in una forte tensione dialettica romantica.


              O graziosa luna, io mi rammento
              che, or volge l’anno, sovra questo colle
              io venia pien d’angoscia a rimirarti:
              e tu pendevi allor su quella selva
 5           siccome or fai, che tutta la rischiari.
              Ma nebuloso e tremulo dal pianto
              che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
              il tuo volto apparia, che travagliosa
              era mia vita: ed è, né cangia stile,
10          o mia diletta luna. E pur mi giova
              la ricordanza e il noverar l’etate
              del mio dolore. Oh come grato occore
              nel tempo giovanil, quando ancor lungo
              la speme e breve ha la memoria il corso,
15          il rimembrar delle passate cose,
              ancor che triste, e che l’affanno duri!


                                                                                         









                                                                                  









Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia la luna come la Natura nella concezione del Leopardi maturo approdato ormai al pessimismo cosmico diviene lontana, irraggiungibile ed indifferente verso i destini e le sofferenze umane.

Schema metrico: canzone libera di endecasillabi e settenari.

                  Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
                   silenziosa luna?
                   Sorgi la sera, e vai,
                   contemplando i deserti; indi ti posi.
5                 Ancor non sei tu paga
                   di riandare i sempiterni calli?
                   Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
                   di mirar queste valli? (…)   


Composto tra l’ottobre del 1829 e l’aprile del 1830, pubblicato nell’edizione del 1831, il Canto notturno è uno dei Grandi idilli. Diversamente dagli altri il paesaggio che fa da sfondo non è Recanati ma un’ ambientazione lontana e misteriosa.
Nella composizione di questa lirica Leopardi fu influenzato da un articolo comparso sul “Journal des Savants” di Parigi nel 1826. In esso si affermava che molti pastori kirghisi delle steppe dell’Asia centrale “passano la notte a guardare la luna e ad improvvisare parole assai tristi su arie che non lo sono da meno”.
Riprendendo le immagini del pastore della steppa desertica e della luna, il poeta esprime il tragico destino che caratterizza non solo l’esistenza umana, ma quella di ogni vivente, accomunando uomini, astri ed animali. Nessuno insomma sfugge ad un’infelicità radicale, assoluta, necessaria e definitiva. L’io lirico si esprime nelle semplici parole di un pastore, emblema dell’uomo di tutti i tempi con cui Leopardi si identifica cedendogli la parola. I dubbi esistenziali del pastore, un “primitivo” che vive un’esistenza solitaria senza particolari desideri o aspirazioni, restano però senza risposta: da sempre e per sempre la vita è mistero.
Di fronte al pastore la luna domina muta e solitaria l’immensità della notte, scortando con la sua luce argentea il cammino nel deserto, di un individuo a cui rimane la sola certezza che “è funesto a chi nasce il dì natale”. In questa desolazione l’uomo soffre irrimediabilmente più di tutti gli altri esseri, proprio per la sua attitudine a porsi domande e, dotato di ragione, a non restare nell’inconsapevolezza.
Lo stile è costruito da un lessico vago, indeterminato come è quello caro al Leopardi. La struttura sintattica è scorrevole e segue l’andamento del discorso. Molto caratteristica del componimento è la figura dell’apostrofe che ha come destinataria la luna. Anafore, iterazioni, interrogative retoriche ed espressioni esclamative connotano il monologo svolto in strofe che mantengono, ognuna, una propria tematica e intonazione. Particolarmente densi di significato sono poi gli aggettivi che si riferiscono alla luna quali “vaga”, “solinga”, “vergine”, “intatta”, “eterna”.
Le sei strofe si chiudono tutte con la rima in “ale” della chiosa drammatica della quarta strofa “a me la vita è male”. Le ripetute invocazioni alla luna infine, conferiscono al testo musicalità e un ritmo da litania religiosa.     






                                            LA VISIONE NOTTURNA PASCOLIANA


In una delle liriche più famose delle Myricae, L’assiuolo, il poeta propone una visione notturna: un cielo chiaro, un temporale lontano, rumori diversi, di mare e campagna. Non succede nulla: eppure, anche grazie al verso ossessivo ed enigmatico dell’assiuolo – una specie di piccolo gufo notturno – le immagini descritte sono portatrici di un’inquietudine profonda.

Schema metrico: strofe di sette novenari chiusi da un ternario tronco con schema (ababcdcd). 

                  Dov’era la luna? chè il cielo
                  notava in un’alba di perla,
                  ed ergersi il mandorlo e il melo
4                parevano a meglio vederla.
                 Venivano soffi di lampi
                 da un nero di nubi laggiù;
                 veniva una voce dai campi:
8               chiù…

                Le stelle lucevano rare
                tra mezzo alla nebbia di latte           
                sentivo il cullare del mare,
12            sentivo un fru fru tra le fratte;
                sentivo nel cuore un sussulto,
                com’eco d’un grido che fu.
                Sonava lontano il singulto:
16            chiù…

               Su tutte le lucide vette
               tremava un sospiro di vento:
               squassavano le cavallette
20           finissimi sistri d’argento
               (tintinni a invisibili porte
               che forse non s’aprono più?…);
               e c’era quel pianto di morte…
24           chiù…














Questa lirica risulta estremamente suggestiva per l’alternanza di determinatezza ed indeterminatezza. La domanda iniziale introduce a una visione lontana e indefinita. Essa rivela l’incertezza dell’esistenza della luna agli occhi del poeta. Manca un “hic et nunc”; Pascoli non ci dice dove, non ci dice quando, diversamente dagli incipit degli idilli leopardiani ricchi di determinazioni spazio-temporali.
Compaiono oggetti precisi come il mandorlo, il melo seguiti da una percezione lontana ed indefinita (laggiù); poi, ancora, fa capolino il fru fru seguito da un singulto lontano. Entrano allora in scena le cavallette, sono citati con precisione i sistri d’argento e interviene ancora un non ben definito pianto di morte. Questa dialettica vicino-lontano rende ambigua e complessa la natura dello sguardo sulle cose: sono prossime o distanti da chi osserva la scena?
Da queste osservazioni risulta chiaro come quello descritto da Pascoli sia solo apparentemente un paesaggio realistico. E’ vero: è una notte di luna piena, in lontananza si annuncia un temporale, ci sono le stelle , il cielo, il vento. Ma si tratta, in realtà, di un paesaggio completamente filtrato e distorto dalla sensibilità del poeta. In questa direzione si collocano i procedimenti di personificazione di elementi naturali ma soprattutto il richiamo all’io lirico che si esplicita a partire dal verso 11 (Sentivo), ai moti inquieti del cuore (v. 13) e persino a quei sistri d’argento a cui è assimilato il verso delle cavallette (vv. 19-20). Una nota, questa, di raffinata cultura (il suono dei sistri nella simbologia egizia era legato ai riti in onore di Iside, connessi al mito della resurrezione dopo la morte) che solo il poeta è in grado di utilizzare e con cui filtra il dato naturale. In virtù di questo procedimento analogico il suono emesso dalle cavallette si carica di un significato simbolico-evocativo profondo, fitto di suggestioni legate al rapporto tra la vita e la morte.
La domanda tra parentesi ai versi 21-22 porta in primo piano un secondo livello, distinto da quello della rappresentazione naturale: il livello mentale della coscienza dell’io, che si interroga sull’irreversibilità del destino di morte che accomuna ogni cosa e sul nulla che inghiotte il tempo senza possibilità di risarcimento.
Onomatopee, assonanze, allitterazioni, sinestesie sono strumenti immediati ed estremi per dialogare con la natura circostante e dare voce al mistero della vita e della morte che pervade la natura stessa.    
 
  






















                                                     Romantic poetry: Percy Shelley


No poetry had ever contained so many descriptions of nature has we find in the works of the Romantics. Looking attentively at nature didn’t mean only a realistic descripton of it. As their fellow painters, the Romantic poets saw a natural scene as much more than simply physical; they endowed it with life, passion and feeling. They talked about nature in terms once used for God, or a lover, or a very dear friend. Romantic poems often begin with the accurate description of a landscape, which then often leads to thoughts about man and his role in the universe. A more exalted vision of nature is present in Shelley, where the landscape is seen as a alive and capable of stirring mankind to the greatest actions.     


                                                                    THE MOON


Published after Shelley’s death in Posthumous Poems (1824) and later in The Poetical Works (1870) the poem was probably written in the autumn of 1820. In the fragment we can find the same questions as Canto notturno d’un pastore errante by Giacomo Leopardi and we may also assocate it to that page from A portrait of the artist as a young man (1914-1915) by James Joyce, where Stephen Dedalus repeats himself some lines of the poem.


                           And, like a dying lady lean and pale,
                       Who totters forth, wrapp’d in a gauzy veil,
                          Out of her chamber, led by the insane
                       And feeble wanderings of her fading brain,
                          The moon arose up in the murky east
                                 A white and shapeless mass.

                                Art thou pale for weariness
                      Of climbing heaven and gazing on the hearth,
                               Wandering companionless
                     Among the stars that have a different birth
                        And ever changing, like a joyless eye
                      That finds no object worth its constancy?    
















This poem is the first step towards achieving that representation. It’s a brilliant little gem of a poem, a glorious example of just how stunning Shelley could be when he didn’t overdo it. The double image of the moon roaming disconsolate throught the night sky and Youth searching restlessly for spiritual beauty is both crystal clear and oddly compelling. To read this poem aloud is to experience the sadness and the despair of the speaker, no mean feat for a poem that is all of six lines long. This is a quintessentially romantic poem: it combines a sense of haunting lyricism with one of the most spectacularly visual closing lines in all of poetry: “Ever changing like a joyless eye / That finds no object worth its constancy”. (The failure of the last line to rhyme only heightens the overall impact of the stanza in my view – it sharpens the ending, makes it, somehow, more fragile).
The identificatin between man and the cosmos has a dominant importance in Shelley’s poetry: the romantic poet was deeply influenced by mysticism and brought to see in nature a manifestation of the Divine. For Shelley the poet and his work have a sacral function as they aim at revealing the deep truth hidden behind the appearances of the sensitive reality. This truth is revealed through indefinite and wounderful sensations, the same has the once charmingly conveyed in this fragment, where the powerful and evocative voices of Nature and the dreamy lyric poet are in one.


                                  Traduzione di Silvio Raffo (inedita)
                                                   LA LUNA
                                          
                                                          I)
                           Come pallida dama, china ed agonizzante
                                 in un drappo di velo la sua stanza
                                lascia, in preda al delirio straniante
                                  e ai deboli fantasmi della mente
                                  ottenebrata, dall’oscuro oriente
                          vaga e candida forma, ecco, la luna balza.

                                                        II)
                          Sei pallida perché ti ha ormai stancata
                        contemplare la terra, scalare il firmamento
                           vagando sempre sola, abbandonata
                           fra le stelle lucenti a gran distanza,
                        sempre mutando, come un occhio spento
                      che nulla trova degno della lunga costanza?
               

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